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L'ex segretario del partito comunista ricoverato da mesi
Pechino, è morto Zhao Ziyang l'uomo del dialogo di Tienanme
Fu messo agli arresti domiciliari dopo la rivolta del 1989

PECHINO - "Al posto sbagliato, nel momento sbagliato, fece la cosa giusta". Così Zhao Ziyang è ricordato dal suo più fedele collaboratore e amico, Wu Guoguang, l' ex giornalista che per anni scrisse i suoi discorsi quando Zhao era il segretario generale del partito comunista cinese.

"Era quasi mezzanotte, il 19 maggio 1989. I leader cinesi stavano mettendo a punto i piani per proclamare la legge marziale e schiacciare le proteste democratiche di Piazza Tienanmen che, nelle 48 ore precedenti, avevano radunato più di un milione di manifestanti. Zhao come segretario generale del partito sarebbe dovuto essere là dentro al Grande Salone dell' Assemblea del Popolo, insieme agli altri leader mentre chiamavano l' esercito. Invece, piegato dalla stanchezza, con le lacrime agli occhi, si fece largo tra la folla degli studenti e nell' oscurità cercò di convincerli a terminare l' occupazione della piazza prima che fosse troppo tardi. Era già troppo tardi: per i manifestanti e, come Zhao doveva già sapere quella notte, anche per lui. Il suo atto di coscienza - Zhao non poteva tollerare che le colonne blindate dell' Esercito di Liberazione Popolare attaccassero il popolo cinese - era l' equivalente politico del voler fermare i carriarmati col proprio corpo".

Quindici anni e sette mesi fa, quella notte Deng Xiaoping decise un golpe istituzionale. La massima autorità cinese, cioè Zhao, fu deposta senza convocare gli organi del partito, da un uomo, Deng, che formalmente controllava solo l' esercito. Ma in quelle ore l' esercito era l' unico potere virtualmente in piedi, in una Cina smarrita nello scontro tra il movimento democratico e la nomenklatura comunista.

Al vertice del partito fu nominato Jiang Zemin, allora segretario di Shanghai e Zhao fu recluso agli arresti domiciliari per sempre. Ne è uscito solo 15 anni e sette mesi dopo, per essere ricoverato in ospedale in seguito alla polmonite che lo ha stroncato. Chissà, si è chiesto Wu Guoguang, se alla fine della sua vita Zhao ripeteva ancora la sua citazione favorita di Karl Marx: "Se non vado all' inferno io, chi ci andrà?".

All' inferno Zhao ci era già stato. La scelta coraggiosa del 19 maggio 1989, quella ribellione alla violenza di Stato che rimane per sempre la sigla della sua vita, non era nata per caso. Era la decisione di un uomo che aveva già condiviso le sofferenze del popolo cinese.

Nato nel 1919 in una ricca famiglia di proprietari terrieri nella provincia centrale dello Henan, Zhao era diventato comunista nel 1932 e aveva partecipato alla resistenza clandestina contro l' occupazione giapponese dal 1937 fino alla fine della seconda guerra mondiale. Ma il trionfo della rivoluzione maoista gli riservava dure prove: suo padre fu ucciso dai suoi compagni di partito, nelle violenze per la riforma agraria alla fine degli anni '40.

Moderato e pragmatico, nei primi anni '60 Zhao si schierò in favore delle riforme di Liu Shaoqi, il "Kruscev cinese". Perciò quando scoppiò la Rivoluzione culturale, nel 1966, Zhao perse il posto di capo del partito nel Guangdong, fu messo alla berlina e fatto sfilare per le vie di Guangzhou per essere umiliato pubblicamente, e nel 1971 venne relegato a lavorare nella Mongolia interiore. Solo nel 1973 intervenne Zhou Enlai, il moderato primo ministro di Mao, a richiamarlo dal confino per affidargli la guida del partito nella provincia dello Sichuan.

Morto Mao nel 1976, una volta liquidata la Banda dei Quattro che aveva ispirato le peggiori violenze della Rivoluzione culturale, i moderati si erano impadroniti delle leve del potere con Deng Xiaoping. La Cina uscì definitivamente dall' isolamento internazionale, accentuando quelle aperture che Zhou Enlai aveva iniziato con il disgelo tra Mao e il presidente americano Richard Nixon. E soprattutto Deng avviò il paese sulla strada dell' economia di mercato, lanciando il celebre slogan "Arricchirsi è glorioso".

Il cambiamento poteva rimanere limitato alla sola sfera dell'economia, e della realpolitik diplomatica? Zhao era convinto di no. E con lui l'ala più moderna del partito.

"Quando nel 1986 mi invitò a lasciare il mio mestiere di giornalista al Quotidiano del popolo per diventare uno dei suoi consiglieri per le riforme politiche - ha ricordato Wu Guoguang - mi aspettavo di lavorare con un burocrate di partito, un cinico esperto nell' arte di conservare il potere. Invece mi trovai di fronte a un paradosso: un leader deciso a smantellare il sistema che lo manteneva al potere".

Il gesto eroico e vano della notte del 19 maggio 1989 era la conseguenza coerente di tre anni in cui Zhao si era battuto come segretario del partito per imporre una vera riforma democratica: un inizio di pluralismo nelle elezioni di tutti i leader, dai villaggi fino al comitato centrale del partito. Zhao era partecipe di un dibattito che investiva tutti i paesi socialisti, lo stesso che iniziò con "Solidarnosc" in Polonia, e finì con la "Rivoluzione di velluto" a Praga, la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell'Urss.

Di fronte all' imponente movimento democratico che unì studenti ed élite urbane cinesi nel 1989, un pezzo del partito era disposto a seguire Zhao. Vinsero gli altri, col contributo decisivo di Deng: pronto a sperimentare tutto del capitalismo, ma non a importare i diritti umani delle liberaldemocrazie.

La nomenklatura comunista non perdonò a Zhao un disegno che, se portato a termine, le sarebbe costato la fine del monopolio del potere. Quella nomenklatura ha avuto paura di lui fino alla fine. Dopo 15 anni di arresti domiciliari e a 85 anni suonati Zhao era ancora un simbolo inquietante.

Il governo ha temuto che la sua morte potesse scatenare manifestazioni di protesta, com'era accaduto proprio nella primavera del 1989 con la morte di un altro riformista, Hu Yaobang. Pochi giorni fa, non appena la notizia della malattia di Zhao è trapelata sui giornali di Hong Kong, a Pechino la piazza Tienanmen è stata "blindata" dalla polizia. Perfino i gruppi di turisti sono stati messi sotto scorta. Un omaggio involontario che ha unito per un' ultima volta Zhao e la "sua" Tienanmen. Il bagno di sangue che lui tentò di evitare, resta una ferita aperta nella legittimità dei dirigenti della Cina.

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